Qualcuno aveva detto: “se uno di voi dovesse dare scandalo a uno di questi piccoli, meglio sarebbe che si legasse una pietra al collo e si buttasse in mare”. Spero i poliziotti incaricati di prendere le impronte degli 80 mila bambini rom sparsi per la Penisola si ricordino di queste parole. Quale scandalo più grave della schedatura di minori su base etnica?

“Ricordo bene”, dice l’ex presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Amos Luzzato, intervistato dal Daily Telegraph (link all’articolo), “quando improvvisamente mi fu proibito d’andare a scuola cogli altri bambini”; era il 1938 e il “grande statista” Benito Mussolini aveva appena fatto varare le Leggi Razziali.

“Non è una schedatura etnica”, ha puntualizzato il ministro dell’Interno Roberto Maroni, “ma uno strumento per la salvaguardia dei loro diritti”; il nesso – dirà qualcuno – è un po’ vago. In fondo anche l’apartheid in Sudafrica era “uno strumento per la salvaguardia dei diritti dei cittadini di colore”.

L’intenzione è quella di schedare i bambini rom “per impedire che le famiglie li spediscano a mendicare; è un censimento”, ha aggiunto il ministro, “per assicurarsi che questi bambini possano vivere in condizioni decenti”. La rilevazione delle impronte digitali – come ben sa chiunque guardi 10 minuti d’una serie poliziesca in tv – è uno strumento per l’accertamento di pratiche criminali e per la schedatura di individui sospetti; che cosa risponderà dunque il poliziotto incaricato, quando una bambina di 7 anni gli chiederà “perché a me?”.

Luzzato è allibito e affranto: “prendere le impronte digitali dei bambini appartenenti ad un determinato gruppo etnico equivale a considerarli ‘ladri congeniti’; non è che la manifestazione d’un razzismo che si manifesta con tendenza ciclica nel nostro paese”.

Anche l’Unicef ha lanciato un grido d’allarme: “speriamo si tratti solo d’una mossa provocatoria”, hanno detto dal Fondo per l’Infanzia delle Naizoni Unite, “i bambini rom non sono diversi da altri bambini: per loro come per tutti vale la convenzione Onu sui diritti del bambino firmata, guardacaso, a Roma nel 1991”.

Il ministro – per usare un tono diplomatico – dell’Unicef se ne fotte. “E’ la strada giusta”, ha detto Bobo ‘Boia chi molla’ Maroni, “questi bambini vivono insieme ai topi nei loro campi; questa situazione deve finire”. Già… topi e rom hanno una lunga storia di fratellanza; ma almeno i topi – come dice il compagno di partito di Maroni Matteo Salvini – si sterminano con minor fatica. Resta da stabilire come il fatto di trasformare ogni neonato rom in un criminale schedato possa contribuire a migliorare le condizioni di vita nei campi.

Certo a Maroni e ai suoi la sorte dei rom sta molto a cuore. Se così non fosse non presidierebbero giorno e notte il sito dove dovrà sorgere il nuovo campo-modello di Venezia, giurando di fare di tutto perché i soldi del comune non vadano a “quattro zingari”.

Dei rom preme molto anche alla camorra, finalmente libera di gestire i terreni del campo d Ponticelli. Con tanto amore che li cinge, non si capisce perché gli zingari siano tanto ingrati da rintanarsi nei loro campi, montando guardie antincendio, tante volte – come ebbe a dire Mario Borghezio – una “fiaccoletta” non cada su una roulotte.

Adesso che si può andare in tv a dire “io i rom li ammazzerei tutti da bambini”, non c’è più ragione di schermirsi: la secolare “emergenza rom” sta per trovare la sua soluzione. La soluzione finale.


Prendiamo tre quotidiani conservatori. Tre fonti d’informazione apprezzate dal pubblico della destra moderata europea, quella che si riconosce in Nicolas Sarkozy, Angela Merkel o David Cameron.

Il primo, il britannico Daily Telegraph, è una vecchia conoscenza; come ben sappiamo, non ama l’Italia, o meglio, non ama questa Italia. Sotto il titolo

Silvio Berlusconi’s ‘iron fist’ laws approved

(le leggi del “pugno di ferro” di Berlusconi sono state approvate), il corrispondente Malcolm (non Michael) Moore ci illustra il contenuto del “pacchetto sicurezza” varato a tempo di record dal Parlamento onde pacificare i tribolati sonni degli italiani.

Tremila militari a spasso per le periferie disagiate, con il compito specifico di stroncare la resistenza popolare nei quartieri di Napoli sprofondati sotto i cumuli d’immondizia; e poi una secca archiviazione per quel processo Mills che tanti grattacapi ha provocato al “perma-tanned billionaire” (l’abbronzato e liftato miliardario).

Quel che indigna di più i britanni – di certo non estranei al problema – sono però le feroci misure anti-immigrazione contenute nel decreto, con le quali il governo vorrebbe “sgombrare la piazza dalle incertezze”. Test del Dna per i ricongiungimenti, sequestro degli appartamenti affittati a irregolari e reato di clandestinità sono per il quotidiano di Londra – da sempre attento al dibattito sulla sicurezza nazionale nel Regno Unito – misure “assai controverse”.

Ma – dirà qualcuno – è pur sempre la Perfida Albione, quella che quando c’è nebbia sulla Manica dice “il continente è isolato”.

E allora prendiamo di nuovo spunto dalla tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung, la quale, non più di due mesi fa pubblicava autentici panegirici sull’ “audace premier italiano”. L’arduo compito di recensire il pacchetto sicurezza con tutte le sue sfaccettature è affidato a Franz-Joachim Fischer, un fervente ammiratore di Benedetto XVI con pochissima simpatia per la nostra sinistra “mangia-preti”. E Fischer – solitamente prolisso – ci regala un capolavoro di gesuitismo in mezza colonna.

Fatti, puri e semplici fatti: il decreto sulla sicurezza paralizza oltre 100 mila processi; tra questi ve n’è uno a carico del premier attualmente in carica Silvio Berlusconi. La coalizione di centro-destra sta intanto lavorando ad un provvedimento che garantisca la totale immunità alle quattro più alte cariche dello Stato. Il corrispondente cita poi il ministro Maroni: il decreto punta a fornire “un importante contributo per la tutela della sicurezza, un trattamento efficiente dell’emergenza immigrazione ed una maggiore trasparenza della macchina giudiziaria”. Tutto questo sotto il titolo

Immunität für Berlusconi?

Notate bene il punto interrogativo.

Spostiamoci in Francia, ove Le Figaro titolava due giorni fa

La coalition de Berlusconi commence à tanguer

“La coalizione di Berlusconi comincia a incespicare”, dando notevole spazio al dissenso interno alla destra italiana, alimentato dal contrasto tra il ministro delle Riforme Umberto Bossi e il Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi. Le accuse di “sovversività” indirizzate dal premier alla magistratura sono parse al leader leghista un “tantinino” eccessive; e poi il noto commento sull’ “ossessione” di Berlusconi rispetto all’ipotesi di finire in galera. A indispettire Bossi è stato in particolare il dirottamento di ingenti risorse verso la mega-pattumiera partenopea, con conseguente “abbandono del Nord” e congelamento del progetto di federalismo fiscale. Il quotidiano della destra francese riferisce inoltre il rammarico di Bossi per la rottura con la sinistra, vista come un serio ostacolo sul cammino delle riforme.


La noia

21Giu08

Dobbiamo proprio parlare dell’ennesimo capitolo della lotta tra potere esecutivo e potere giudiziario? All’estero le reazioni si dividono tra un misto di incredulità indignazione e l’indifferenza dei più filo-berlusconiani. In Italia i sondaggi ci dicono che il “popolo” è tutto col suo Premier, che della libertà della magistratura e della divisione dei poteri (colonna portante della Democrazia) non gliene può fregare di meno a nessuno. Diciamolo, il sistema democratico è una noia. Berlusconi è stato eletto per acclamazione, e lo sarebbe di nuovo se ci fossero non una ma cento elezioni. Il Presidente della Repubblica cominci a fare le valige.

Giusto per assolvere al servizio che questo blog si pregia di espletare ecco dunque una breve rassegna di articoli.

Anzitutto il solito Pais (link all’articolo), che, sotto il titolo “Berlusconi si accaparra l’impunità”, ci rende partecipi della sorpresa che ha destato in Spagna l’improvviso voltafaccia del premier italiano: da uomo della conciliazione, Berlusconi è tornato ad essere il “nemico della magistratura”, accusata di rappresentare “frange dell’estrema sinistra”. E conclude “Il conflitto istituzionale è servito”.

A destare la meraviglia dei francesi secondo Le Monde (link all’articolo) è invece che il nuovo emendamento salva-premier sia stato inserito in fretta e furia all’interno d’un pacchetto sulla sicurezza inteso a fornire una risposta alla crisi di panico cui sembra essere soggetta la maggioranza del popolo italiano.

E infine il conservatore Daily Telegraph (link all’articolo), che – oltre a offrire una panoramica sul “dark day” della democrazia italiana – mette in rilievo che, insieme alla sentenza sul processo Mills, l’emendamento congela di fatto processi con capi d’imputazione estesi dal furto all’estorsione, alla frode aggravata, fino al concorso in omicidio e al rapimento.

Certo, si dirà, noi italiani non prendiamo lezioni di democrazia da nessuno. Siamo infatti insuperabili nell’acclamare duci e capipopolo, il cui talento consiste anzitutto nell’istituzionalizzare il relativismo legale che permea ampie fasce della società italiana. In altri paesi un grande evasore, un politico corrotto, un funzionario che abusa della propria carica sono visti come nemici dello Stato; in Italia sono invece luminosi esempi da additare ai propri figli, persone capaci di sollevarsi oltre le barriere della legalità per forgiare il proprio destino.


Mi scuseranno i nostri 25 (25?!) lettori, ma il tempo tiranno mi costringe di nuovo a riportare notizie vecchie e stravecchie.

Ci si potrebbe aspettare qualcosa sul nuovo-vecchio lodo, ma noi agenti del Kgb amiamo l’effetto sorpresa, percui di altro si parla.

La nostra storia odierna è una storia di amicizia, di quelle che potrebbero figurare nei sussidiari delle scuole elementari; se l’avesse scritta Esopo il titolo potrebbe essere “il leone e l’asino”, ovvero “il rinoceronte e il beccaccino” o magari “il cane e la zecca”. E’ la storia di due amici, di cui uno è molto più amico dell’altro, fattore che causa non pochi problemi all’amico più grande e forte, costretto – suo malgrado – ad accettare le imbarazzanti moine del suo garrulo e oltremodo affezionato compagno. Ora che ci penso, ricordo un Looney Tune in cui un cagnetto saltellava insistentemente intorno ad un grosso cagnone uggiolando “è il mio migliore amico, è il mio migliore amico!”.

Va bene… direte voi, tanta acrimonia nel dipingere i rapporti tra George W. Bush e Silvio Berlusconi (a voi la decisione su chi sia il cagnone e chi il cagnetto) non può che venire dai sediziosi circoli di Micromega. Errore.

Chi legge il Washington Post sa che questo non è esattamento un quotidiano dalle tendenze ultraliberali. Fatta questa lunga premessa, l’articolo in questione (a firma di Dan Eggen) illustra i rapporti tra i due amiconi in termini che potrebbero difficilmente essere più ironici.

“Appearing with Bush at a news conference held in a breathtaking Renaissance villa overlooking the Eternal City, the garrulous Berlusconi called Bush a “personal friend,” a “very close friend” and a “very unique person,” and praised his “vision” and “courage.”  ”

“Facendo la sua apparizione con Bush ad una conferenza stampa in una meravigliosa villa rinascimentale che si affaccia sulla Città Eterna, il garrulo Berlusconi ha definito Bush “un amico personale”, “un amico molto intimo” e “una persona unica”, oltre a lodare la sua “vision” e il suo “coraggio” “.

Il Loro si è spinto fino a proporre all’amico una cattedra in un’immaginaria “Università del Pensiero Liberale”; Bush, il quale non vede l’ora di tornarsene nella pace del suo ranch, ha ringraziato e prontamente declinato.

Persino l’offerta di entrare a pieno titolo nel “Gruppo dei sei” che gestisce i contatti con Teheran ha generato una risposta venata di rassegnato possibilismo: “vedremo”, ha detto Bush, “Le faremo sapere”.

Di certo non è giunta sgradita l’offerta di rimuovere i “caveat” che gravano attualmente sulla missione italiana in Afghanistan, senza dubbio il più bel regalo che lo “swashbuckling media baron and financier” (audace principe dei media e finanziere) – come lo chiama il quotidiano Usa – poteva impacchettare per l’amico. Da tempo la Nato sollecita gli alleati a profondere un maggiore impegno sul travagliato fronte dell’Hindukush, una questione che – per citare un caso tra gli altri – ha provocato drammatiche lacerazioni nella maggioranza di governo tedesca. Non così in Italia. Da noi esistono valori più radicati della democrazia. Perché aprire un dibattito parlamentare sull’opportunità di inviare un più ampio contingente di militari in territorio di guerra se la cosa può essere risolta nel nome dell’amicizia?

 


Dirk Schurmer è uno dei due corrispondenti dall’Italia della tedesca Frankfurter Allgemeine Zeitung, un quotidiano centrista con spiccate simpatie per il centrodestra italiano. Lo dico perché sennò mi si accusa di attingere solo alla Prabda.

Qui di seguito trovate la sintesi d’un suo articolo uscito sulla Frankfurter Allgemeine Zeitung in data odierna, 13 giugno 2008.

Di strade e piazze dedicate alla memoria di Giorgio Almirante la Penisola e già piena, specie al Meridione; a che scopo dunque accapigliarsi per la dedica d’una strada della capitale al leader del partito che ha raccolto l’eredita di Mussolini? Almirante – tra i firmatari delle Leggi Razziali – è semplicemente una pedina nel gioco della memoria storica; il gioco che la destra italiana ha ideato allo scopo di rendere reatroattiva la sua svolta democratica, livellando le differenze tra sé e la controparte uscita vittoriosa dalla guerra. Di fatto, fino a prova contraria, Almirante ha occupato per quarant’anni un seggio in un parlamento democratico, guadagnandosi persino la stima postuma della dirigenza del Partito Comunista Italiano. Questa pratica di esorcismo degli spiriti maligni della Storia attraverso l’accoglienza nella “Grande Famiglia” della nazione pertiene probabilmente all’indole più marcatamente cattolica del poplo italiano. La tendenza di questi anni – scrive Dirk Schurmer – è quella a far marciare fianco a fianco partigiani e repubblichini, avversari in una lotta che, invece di spaccare il paese, lo avrebbe unito nello spirito della “grande amnistia” del’48. In Germania nessuno si sognerebbe mai di proporre la costruzione d’un mausoleo nella città di Braunau per celebrare la memoria di Adolf Hitler; la proprietà di famiglia del Duce a Predappio rappresenta invece una comune meta di pellegrinaggio per quel dieci per cento della popolazione che nel Dopoguerra appoggiava la linea di Almirante. I suoi adepti esigono adesso che il seguace di Mussolini, il sostenitore della “Difesa della razza”, venga eretto al ruolo di uomo politico esemplare, nella speranza – neppure troppo segreta – di entrare un giorno nello stesso Olimpo.


Lo aveva detto Romano Prodi in un momento di rabbia e sconforto: il Paese ha la classe politica che si merita. Additare le responsabilità d’una “casta” di politici come unica ragione del malessere della società italiana è irragionevole e controproducente; già Gramsci se la prendeva coll’uso tutto italiano di dire a ogni inciampo “Piove, governo ladro”.

Al solito non c’entra nulla col blog, ma riporto la segnalazione d’un amico su un bel pezzo di Repubblica (link all’articolo) datato dicembre 2007, in cui il presidente del Censis Giuseppe De Rita parla dell’Italia come d’una società-mucillagine.

“Non abbiamo più fiducia nello sviluppo di popolo – dice De Rita – che ha dato vita al boom economico degli anni ’50, all’industrializzazione di massa degli anni ’70, alla lotta al terrorismo”.

Forse perché il popolo, così come la cultura, la scuola, le istituzioni, osserva il presidente del Censis, sono ormai parole svuotate, che non significano più nulla. E quindi anche i tentativi di “partiti del Popolo”, come il Partito Democratico o quello proposto da Berlusconi sembrano proposte prive di senso, nel momento in cui nessuno crede più a “uno sviluppo collettivo in cui ci stiamo tutti”. Anche perché il Pd “si raggrinza su se stesso” mentre “il Pdl è un’operazione di marketing”.

“Abbiamo piuttosto il sistema assicurativo, bancario, industriale – spiega De Rita – ma è roba di Profumo o di Passera, non è una questione che riguarda la collettività. Minoranze vitali che non riescono a trainare una società che non funziona”. E che ormai è pronta al peggio, denuncia De Rita: “Il vaffanculo scritto dappertutto, la violenza, la volgarità, lo sballo, questa dimensione sempre più disadorna della cultura collettiva, la scuola dileggiata dai ragazzi che filmano gli insegnanti con il cellulare o provocano incendi”.

***

A ognuno il piacere di confutare la teoria di De Rita secondo coscienza.


Si dice, il lupo perde il pelo… Molti avranno anche voluto crederlo: niente più ingerenze nei processi in corso, niente più leggi ad personam, niente più conflitti con la magistratura. Per dirla con Adriano Celentano, Silvio Berlusconi appariva “cambiato”. E invece…

E invece El Pais (link all’articolo) è costretto a documentare l’ennesimo capitolo dell’infinita lotta tra l’Italia che ama (i propri quattrini, i propri amici e gli amici degli amici) e l’Italia che odia. “L’Italia proibisce a giudici e polizia fiscale le intercettazioni in casi di corruzione”, titola il quotidiano spagnolo, aprendo con una rassegna sulle pene (fino a 5 anni di detenzione) previste per magistrati e giornalisti che violeranno la privacy degli “uomini di panza” del nostro onorato paese. Da buon foglio bolscevico, il quotidiano iberico ci dice che il provvedimento – in base al principio del “tempus regit actum” – manda a monte le indagini inerenti le pressioni esercitate dal nostro premier sul direttore di Rai Fiction Agostino Saccà per il piazzamento di alcune sue “pupille”.

El Pais sbaglia. Sbaglia perché l’intervento legislativo non riguarda unicamente i casi di corruzione e abuso di potere. Lo rileva il britannico Daily Telegraph (link all’articolo), il cui fidato corrispondente Malcolm Moore si è spinto fino a chiedere il parere del capo della polizia di Palermo Giuseppe Caruso. Caruso risponde da poliziotto esperto: “è tecnicamente impossibile”, dice, “arrestare persone responsabili di reati di frode senza intercettazioni”; e cita il caso d’una banda impegnata in furti d’auto e riciclaggio di denaro caduta ieri nella rete della magistratura grazie ad una serie di intercettazioni telefoniche. A ben vedere, a trarre profitto dalla “Sindrome del Grande Fratello” manifestata dall’esecutivo non saranno solo ladri d’auto, paccari, direttori di Rai Fiction o Presidenti del Consiglio. Come rileva Marco Travaglio sul suo blog (link al post), nemmeno l’arresto di Claudiu Stoleru, l’assassino di Lugagnano di Sona, sarebbe stato possibile senza le intercettazioni.

Finché ad opporsi al varo d’un provvedimento che ostacola il lavoro della magistratura è il Csm ci si può sempre appellare alla maledizione delle toghe rosse. Ma quando persino la Lega Nord – rileva ancora El Pais – solleva alcune perplessità riguardo al problema d’immagine che il decreto non mancherà di destare, persino la coscienza del pasdaran berlusconiano subisce una spasmodica contrazione.

“Ci invidiano”, si dirà, “ci invidiano perché, mentre il resto del mondo si preoccupa di creare un fitto reticolo di controlli che impedisca a terroristi e politici corrotti, ladri d’auto e trafficanti d’armi di continuare indisturbati la loro carriera, il nostro Belpaese permette a tutti di dire ciò che vogliono. Questo è davvero il paese delle Libertà: la libertà per un ex monarca – citando dal Telegraph – di vantarsi d’aver assassinato un uomo e averla poi fatta franca, e la libertà d’un politico, d’un imprenditore, ma soprattutto d’un Uomo di raccomandare a un amico alcune ragazze di talento. E poi la libertà d’un trafficante di droga di poter accordarsi con i propri galoppini senza dover temere attentati alla sua privacy, o quella d’un assassino di chiedere la consulenza d’un amico sul miglior modo per disfarsi d’un cadavere”.

E’ chiaro che all’estero invidiano l’Italia di Silvio III. Invidiano i cumuli di monnezza che campeggiano sulle prime pagine dei quotidiani da Kuala Lumpur a Toronto, da Sidney a Tokyo. Invidiano i roghi di Ponticelli. invidiano i pazienti della Clinica Santa Rita cui spetta il raro privilegio di essere curati per malattie che non hanno (link da New York Times, Washington Post e Guardian).

E provate a indovinare come ha fatto la polizia a sapere che i medici della clinica asportavano polmoni invece di tiroidi, praticando interventi rischiosi e invasivi al solo scopo di alzare la parcella? Esatto. I medici – si sa – quando sono tra loro sono dei gran chiacchieroni.


La notizia in sé non merita forse alcuna attenzione, se non per la povertà d’idee che la ispira. La bonaria indignazione con cui Victor L. Simpson illustra sul Washington Post (link all’articolo) il menu del banchetto indetto dalla Fao per alleviare i timori di crisi alimentare globale rientra negli standard del giornalismo “d’appendice”. Non meriterebbe in sé alcuna attenzione, se non fosse per il fatto che, tra un piatto di spaghetti gamberi e zucchine e una caprese (nulla di luculliano o stravagante, si dirà), Mr. Simpson fa notare che a pianificare l’evento gastronomico è stato un think-tank posto sotto la guida diretta del premier italiano.

Sappiamo tutti quanto piaccia a Silvio Berlusconi deliziare i suoi ospiti con trovate degne d’un Trimalchione (i limoni di Genova sono ancora un ricordo assai vivo); tanta accuratezza nel pianificare la cornice degli appuntamenti diplomatici è sicuramente un tratto caratteriale del Berlusconi imprenditore, quello – per dire – che quando doveva risolvere il dilemma della “Cinq” invitava giornalisti e autority francesi a cene di gala con spreco di champagne. E’ una strategia che pertiene al gran mondo dell’economia: quanto più ingente lo sfarzo tanto più efficace il “potlach” mediante il quale l’imprenditore impugna il controllo della trattativa. E’ un vizio che gli è rimasto, e sicuramente non il peggiore.

A destare un po’ di rammarico è il fatto che, mentre l’Onu e Amnesty International accusavano l’Italia di promuovere una politica xenofoba per soddisfare i più bassi istinti dell’elettorato, il premier sedeva – penna in mano – alla sua scrivania con espressione estatica. Sul piano di mogano un foglio con poche, concise parole: “spaghetti gamberi e zucchine”, “caprese (non troppo origano che’ non a tutti piace)”… Poi, con espressione corrucciata, si rivolgeva all’uomo in livrea accanto a lui: “cosa dici… facciamo gelato pistacchio-vaniglia-fragola o pistacchio-fiordilatte-fragola?”.


Boia chi molla

02Giu08

Sono articoli piuttosto vecchi e me ne scuso… ma, anche in questo caso, ritengo che una breve riflessione sia d’obbligo. Partiamo dalle dichiarazioni di Maroni dal palco di Pontida. La fonte è Repubblica, organo di stampa del PD, e quindi non val la pena diffondersi sulla forma.

“Ci accusano di essere diventato un paese razzista e xenofobo – ha proseguito – Sono palle di chi non vuole accettare il fatto che con noi al governo la musica è cambiata”. “Noi – ha sottolineato Maroni – non molleremo mai, non arretreremo di un millimetro sulla sicurezza e sul federalismo perché queste sono le nostre battaglie, una battaglia di civiltà prima ancora che politica”. “Vinceremo la resistenza dei magistrati – ha messo ancora in guardia il ministro – che hanno già detto che non applicheranno la legge sull’immigrazione clandestina. Così non va bene, i magistrati devono applicare la legge”.

Li accusano. Poveretti. Chi li accusa? Di certo qualche esaltato estremista che non ha compreso l’intrinseco valore della giustappossizione di due parole in sé innocue: tolleranza-zero. Una battaglia di “civiltà” la chiama Maroni, richiamando quello “scontro di civiltà” che anni fa ci portò sull’orlo d’una crisi diplomatica globale. Chi si permette di contestare tanta real-politik? Qualche magistrato al soldo dell’oscuro potere demo-pluto-bolscevico?

No. Il Cardinal Bagnasco. Questo comunista discromico che ha scambiato il rosso per porpora. La fonte è El Pais (link all’articolo), ma le parole sono quelle dell’arcivescovo di Genova. Bagnasco parla delle migrazioni come di un “fenomeno di dimensioni globali, emblematico per la nostra epoca”, cui è necessario rispondere “ponendo in primo piano il rispetto dei diritti della persona, che altro non è se non un dovere di civilità”. La civiltà. Quale civilità? Quella che Maroni vuol difendere con la “tolleranza zero”? E il cardinale non si ferma qui: “molti immigrati con le loro famiglie”, prosegue Bagnasco, “sono entrati in centri di reclusione considerati inizialmente come misure di emergenza, ma tramutatisi poi in ghetti inaccettabili”. Queste parole, pronunciate a pochi giorni dalla morte di Hassan Nejl nel Cpt di Torino sembrano segnalare – neanche troppo velatamente – una volontà della Chiesa di non avallare in tutto e per tutto la politica dei Difensori della Croce. Con buona pace di Monsignor Biffi.

Quei socialisti senza-dio del Pais non mancano di collegare le dichiarazioni di Bagnasco alla deriva squadrista che ha iniziato a dilagare nella Capitale. E qui mi corre l’obbligo di rimandare ad un articolo del solito Daily Telegraph, il quale – contrariamente a quanto possa sembrare – non è la versione britannica di Repubblica (cito da Wikipedia – “61% of Telegraph readers support the Conservative Party”). Il corrisondente da Roma Malcolm Moore (link all’articolo) ci dice che la violenza di stampo fascista che congiunge la morte di Nicola Tommasoli a Verona, il raid del Pigneto, e in ultimo, gli attacchi fascisti all’Università La Sapienza, non nasce da pura coincidenza: “many Italians” scrive Moore, “blame Silvio Berlusconi’s government for fostering a climate of hate, intolerance and xenophobia” (molti italiani accusano il governo di Silvio Berlusconi di alimentare un clima di odio, intolleranza e xenofobia).

“Non molleremo mai”, dice Maroni. Già… boia chi molla.


La questione del nucleare – va da sé – è patrimonio dei tecnici, e non dei giornalisti. Fatta questa doverosa premessa – e visto che nemmeno i tecnici sembrano essere concordi sull’effettivo grado di affidabilità delle centrali – mi permetto una piccola digressione fisico-politica.

Quando Elisabeth Rosenthal scrive sul New York Times (link all’articolo) che la situazione del mercato energetico non è più quella degli anni ’80 (quando fu proclamato il referendum italiano sul nucleare), nessuno può di fatto opporre alcuna smentita. Sì, il mercato energetico è in crisi, i carburanti fossili sono ormai fortemente razionati – e, anche se non lo sono, restano nelle mani di spietati potentati – , e le care vecchie centrali a carbone/petrolio spediscono nell’atmosfera milioni di metricubi di sostanze inquinanti che, dai e dai, faranno sì che si vada al mare a dicembre e a sciare d’agosto.

Questo – più o meno – è quello che tutti sappiamo. Vero è anche che la tecnologia impiegata nelle centrali atomiche d’ultima generazione ha fatto sì che di disastri come quello di Chernobyl non ve ne fossero più…

Il quotidiano statunitense si rivolge dunque a quei semplicioni dei cugini europei, un po’ come il topo di città quando parla col topo di campagna. Vedete, cari vecchi europei colle vostre porcellane e i vostri mobili Biedermeier – dice la Rosenthal – alcuni paesi lungimiranti si stanno adeguando alla mutata situazione e stanno sposando la strategia d’una progressiva uscita dalla grigia wasteland dei carburanti fossili per entrare nei verdi pascoli dell’era atomica.

Mentre in Gran Bretagna si stanno già distribuendo licenze per la costruzione d’un nuovo network di centrali, in Germania la destra sta progressivamente sdoganando l’inevitabilità d’un ritorno al nucleare, dopo che il governo rosso-verde in carica fino al 2005 era riuscito a fermare le centrali.

Anche la nostra Enel non è stata a guardare. In base ad un piano sperimentato dall’oligopolio eneregtico tedesco (formato da Eon, Rwe e EnBw) nei Paesi Baltici e in Romania, la nostra Enel ha bruciato sul tempo la macchina statale, avviando il suo programma di proliferazione nucleare in Bulgaria.

Gli italiani – dice ancora il New York Times – pagano le bollette più salate d’Europa; non solo, ma adesso Enel è pure costretta a chiudere alcune centrali a petrolio per potenziare alcuni impianti a carbone, più inquinanti – ahimé – ma assai più economici.

Tutto questo per dire che forse davvero del nucleare non si può fare a meno. Certo – dirà qualche guastafeste – le pressioni dei colossi energetici nazionali sul governo tedesco per una riattivazione dei reattori sono state quanto di meno “politically correct” (si parlava di black-out improvvisi e di durata imprevedibile). E – sempre secondo i soliti guastafeste – i forti interessi lobbystici in gioco hanno fatto sì che le energie rinnovabili restino una sorta di “giocattolo” per ecologisti e soccorritori di balene.

Peccato – ci si potrebbe dire – che i media italiani abbiano dato tanto spazio alle dichiarazioni del ministro Scajola, quando avrebbero potuto riportare la notizia d’un accordo tra Enel e la nipponica Sharp per la realizzazione d’un progetto che prevede la costruzione di varie centrali fotovoltaiche; l’iniziativa – che dovrebbe vedere i primi risultati entro 3 anni – prevede anche una collaborazione tra le due aziende nello studio e progettazione di pannelli a maggiroe rendimento.

Alcuni dei suddetti guastafeste potrebbero anche tentare di gettare uno sguardo all’interno di qualche centrale nucleare per osservare da vicino il grado di sicurezza raggiunto dai nuovi impianti.

Per una decina di giorni ho raccolto alcuni articoli inerenti, in uscita sui quotidiani gipponesi. Il Giappone è uno dei paesi in cui – per scarsità di altre risorse – la tecnologia nucleare ha raggiunto attualmente il suo più elevato grado di sviluppo. Se avete tempo e voglia potete scorrere quanto segue, e, forse, iniziare ad avere un po’ di fifa. (N.B. l’incidente più grave ad una centrale atomica giapponese occorso nell’ultimo anno è stato quello che ha colpito un reattore posto nella prefettura di Niigata; a causa di alcuni smottamenti sismici, le pareti di contenimento del reattore hanno subito un leggero cedimento, con conseguente fuoriuscita di radiazioni).

* La scoperta tardiva di tracce d’ossidazione sulla superficie d’una cisterna del reattore nucleare di Hamaoka (provincia di Shizuoka, nel Giappone centro-meridionale) è destinata con ogni probabilità suscitare forti dibattiti in merito alla sicurezza degli impianti. Una porzione del reattore – viene ricordato sulle pagine del Mainichi Shimbun – era stata resa inattiva dopo la fuoriuscita di radiazioni seguita alla rottura di alcune tubature nel 2001.

* Due dei rilevatori di radiazioni contenuti all’interno del primo reattore della centrale di Shimane, nella regione giapponese del Chuugoku, hanno fornito negli scorsi giorni una serie di dati fortemente incongrui. Stando a quanto riferisce il quotidiano Yomiuri Shimbun, i due dispositivi sarebbero stati sostituiti di recente, fattore che fa propendere per alcuni errori di rilevazione; l’azienda energetica regionale sta effettuando controlli a tappeto allo scopo di comprendere la natura dell’anomalia.

* La prima esercitazione tenuta dalle squadre di pronto intervento della centrale atomica di Kashiwazaki Kariwa (prefettura di Niigata, nel Giappone nord-occidentale), dopo il terremoto del 19 luglio scorso, ha fornito l’occasione per una valutazione dei sistemi di sicurezza legati al funzionamento dei reattori nucleari. L’evento pù grave occorso in occasione del sisma – ricorda il Mainichi Shimbun – Estato l’incendio d’un trasformatore, il cui spegnimento Estato possibile solo dopo due ore di lotta con le fiamme, a causa del cattivo funzionamento dei sistemi di pompaggio. A tale fattore si è tentato di ovviare attraverso una politica di maggiori controlli e più intenso scambio di comunicazioni.

* La rottura del sistema di pompaggio dell’Eccs (Emergency Core Cooling System) del reattore 1 della centrale di Kawauchi, nella regione nipponica del Kyushu, ha provocato istanti di forte tensione tra i responsabili per la sicurezza dell’impianto. Nonostante le forti incertezze che permangono riguardo allo stato dei sistemi di sicurezza – riferisce il Mainichi Shimbun – l’incidente non sembra aver provocato alcuna fuga di radiazioni.

* Alcuni documenti fotografici hanno rivelato al pubblico l’entità del danno occorso nella centrale nucleare di Satsuma Sendai nella regione giapponese del Kyushu. Osservando le fotografie pubblicate dal quotidiano Yomiuri Shimbun, è ben visibile su uno degli assi rotanti in uso nel sistema di pompaggio dell’acqua all’interno del reattore un’ampia frattura. I documenti sono stati forniti dall’azienda elettrica regionale Kyushu Den.

* La commissione per la sicurezza delle centrali atomiche del ministero dell’Economia giapponese ha deciso di avviare una serie di accurate indagini sul funzionamento del reattore “Monju” della centrale di Tsuruga, nella prefettura di Fukui. Nel mese di marzo, a causa d’un guasto ai dispositivi di rilevazione, una fuga di vapori di sodio e stata arginata con 3 ore di ritardo. La decisione del ministero di avviare una serie di indagini speciali sulla centrale deriva – stando a quanto dichiarano fonti ministeriali al quotidiano Asahi Shimbun – da un incidente simile avvenuto nel 2004 e costato la vita a 11 lavoratori.

* Si è concluso senza danni l’incidente che ha colpito il reattore numero 5 della centrale nucleare di Hamaoka, nella regione giapponese del Chubu. Secondo quanto riferisce il quotidiano Mainichi Shimbun, una delle 205 barre di controllo utilizzate nell’attivazione del reattore si e improvvisamente bloccata, facendo temere per un sovraccarico del sistema. La tempestiva attivazione del sistema di emergenza ha tuttavia evitato che vi fosse una propagazione di radiazioni.